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DIAGNOSI NORMATIVE

DIAGNOSI NORMATIVE

Torna la rubrica di approfondimento giuridico-legislativo curata da Giorgio Verdecchia, componente del comitato scientifico di Confcooperative Sanità.

Categorie: in PRIMO piano

Tags: assistenza primaria ,   giorgio verdecchia ,   medici ,   sanità ,   professioni sanitarie ,   infermieri

Riportiamo di seguito il testo integrale di Giorgio Verdecchia, membro del Comitato Nazionale Assistenza Primaria (CNAP) con una riflessione circa la posizione della cooperazione nella "guerra" tra le professioni sanitarie.

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Una recente deliberazione della Giunta regionale Veneta (la numero 580/2019) istituisce percorsi di formazione complementare regionale per i professionisti sanitari finalizzati all’acquisizione di competenze avanzate per l’attribuzione degli incarichi previsti dal contratto collettivo nazionale recentemente rinnovato (21 maggio 2018).

Il provvedimento ha riacceso immediatamente  lo scontro pubblico tra i medici,   schierati  sulla difensiva del perimetro delle proprie competenze primarie rispetto a temute  invasioni di campo, e gli altri professionisti sanitari, i quali, ormai affrancati dalla vecchia posizione ausiliaria del medico e consolidato il proprio ruolo professionale, cominciano a differenziarsi tra loro in aree di  specializzazione e corrono alla conquista di posizioni di maggior potere nel posto di lavoro, sfiorando il perimetro del potere professionale ed organizzativo  del medico al quale  negano ormai decisamente il ruolo di unico rappresentante della sanità nei rapporti con le istituzioni pubbliche.  La competizione tra i professionisti della salute condotta  sui labili confini della  distinzione formale dei ruoli  e dei compiti, talvolta bizantina e strumentale, in nome di vere o presunte aree di esclusività non è una novità e non ci deve sorprendere più di tanto. E’ naturale che ognuno difenda il territorio conquistato e cerchi di espanderlo entrando in conflitto con quelli a cui erode gli spazi.

Sta di fatto che il processo di professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche  è andato molto avanti e, dopo aver compiuto un percorso quasi secolare, può dirsi  ormai completato quantomeno sul piano dell’ordinamento giuridico. La gerarchizzazione formale tra medico e professionisti sanitari  cosiddetti ausiliari del medico è un reperto  del passato. Per il diritto l’operatore sanitario specializzato nella prevenzione, nell’assistenza, nella cura e nella riabilitazione non è un medico, ma è comunque un professionista  della salute a tutti gli effetti. Ha acquisito un suo pacchetto di conoscenze teoriche e tecniche, ha una sua area di competenze esclusive, si  muove in autonomia, affianca  il medico offrendogli il contributo della propria competenza, che non lo limita, ma, al contrario ne arricchisce la  capacità di prevenire, diagnosticare e trattare la patologia, di assistere il paziente durante la terapia e di guidarne la riabilitazione, ne condivide in ultima analisi la responsabilità per il risultato.

Mi sembra che oggi il vero problema non è contrastare sul piano formale e peraltro tardivamente, il fenomeno della differenziazione e della  autonomizzazione professionale tra gli operatori non medici della sanità, stimolato in tutti i sistemi sanitari evoluti dal progresso scientifico e tecnologico della medicina e dalla insopprimibile volontà di affermazione sociale ed economica delle categorie interessate. E’ piuttosto quello di  gestire  le ricadute di tali processi nei diversi ambienti  organizzativi sui quali impattano,  ragionando di come assorbire  i prevedibili conflitti  per trasformarli in fattore di miglioramento  dei risultati offerti dall’apparato. Come accade in tutti i processi di cambiamento, le dispute si accendono  non appena si mette mano alle regole formali alimentando le comprensibili attese non ancora soddisfatte di alcuni e le mai sopite preoccupazioni degli altri, perdendo di vista l’esito dei conflitti  nel medio-lungo periodo. Il rischio sul quale voglio richiamare l’attenzione è quello per cui, se non governata da una lucida volontà strategica e non gestita oculatamente, la difesa esasperata della specializzazione finisce con l’impattare negativamente sulla organizzazione del lavoro e diventa nemica della logica dell’assistenza primaria, perché, nella misura in cui esalta la divisione dei compiti, la specializzazione segmenta e  parcellizza il processo di servizio rendendo praticamente più difficile, anziché favorire, il cambiamento del modello organizzativo nella direzione dell’integrazione operativa delle specialità in team polispecialistici e multifunzionali.

Posto il problema in questi termini, ritengo che nemmeno la cooperazione sanitaria possa ritenersi del tutto immune dal rischio degenerativo che denunciamo e che faccia bene ad interrogarsi sul tema.  Lo scopo della scheda che presento è quello di proporre, ad utilità di chi, appartenendo al mondo della cooperazione sanitaria, voglia seguirci in questo monito, una riflessione  che svilupperemo attraverso un nostra ricostruzione storica del  processo di professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche condotta con la tecnica della politica del diritto1. L’intento è quello di  far emergere da un lato la debolezza della politica nel governare a colpi di legge l’intreccio di interessi che nel nostro caso appartengono al mondo del sapere biomedico, a quello della esperienza professionale e a quello della organizzazione dei servizi sanitari e, dall’altro,  la responsabilità della cooperativa nello  sciogliere i conflitti valorizzando la propria vocazione al servizio per l’utente.

Due parole sul concetto di professione.

Svilupperemo la nostra indagine procedendo ad un doveroso chiarimento preliminare sulla nozione di professione sul piano giuridico quale nodo concettuale nel quale si intrecciano le linee lungo le quali il processo di professionalizzazione delle attività sanitarie si è sviluppato.

I termini di professione e di professionista sono impiegati nel linguaggio comune con una varietà di significati talmente ampia da perdere ogni capacità definitoria di ciò di cui parliamo. Il tratto comune a tutte le accezioni correnti è la individuazione di un’attività lavorativa intellettuale o anche materiale resa ad utilità di terzi da un soggetto dotato di particolari conoscenze, competenze ed abilità.  Così intesa, la nozione di professione si confonde con quella di occupazione, di mestiere anche artigiano, esercitati abitualmente. E’ applicabile ad una miriade di situazioni, che vanno da quella del falegname, del fabbro, del cuoco a quella dell’insegnante, dell’esperto finanziario, dell’avvocato, del medico e tende a sovrapporsi all’aggettivo “professionale” usato per qualificare l’attività di una persona svolta con particolare perizia, qualità e serietà. Una nozione ancora troppo generica, che non soddisfa la nostra esigenza di analisi, perché  non evidenzia a sufficienza  i  due elementi che caratterizzano veramente il professionista, distinguendolo da altri tipi di lavoratore intellettuale, identificabili da un lato nell’autonomia di giudizio e di decisione  riconosciuti a chi lo esercita  circa la scelta delle modalità di intervento e, dall’altro, nell’assunzione della responsabilità diretta e personale  per l’operato.

Questo ci dice l'esperienza.

E’ meglio allora lasciare la parola al codice civile, il quale ci consegna un modello concettuale della professione molto più solido. Con la sua ferrea logica sistemica, il diritto civile approccia la professione come un lavoro, la colloca nell’area del lavoro autonomo e definisce in generale il professionista come colui che si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente (art. 2222). Questa definizione contiene i pilastri logici della professione: lo scambio remunerato di un’opera (materiale, come quella dell’idraulico o del barbiere) o di un servizio (intellettuale, come quello dell’avvocato, del medico o dell’infermiere) quale risultato di un lavoro organizzato con fattori personali di produzione diversi da quelli dell’imprenditore e gestito in autonomia con assunzione della responsabilità per l’operato. Lo schema corrisponde  alla fattispecie della locatio operis  utilizzata dal diritto romano e traccia una chiara linea di confine rispetto al lavoro subordinato (locatio operarum secondo il diritto romano), inteso come l’attività di colui che  mette a disposizione del datore il proprio lavoro intellettuale o manuale assoggettandosi al suo potere direttivo, organizzativo e disciplinare e a prescindere dal risultato (articolo 2094).

Così caratterizzata, la professione può essere esercitata liberamente ed autonomamente da un soggetto che si avvale a proprio rischio del proprio lavoro e di mezzi propri (si parla allora di libero professionista), o anche nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato  avvalendosi dei mezzi e della organizzazione del datore di lavoro  (si parla allora di professionista dipendente). Il professionista dipendente non perde l’autonomia tecnica nello svolgimento del lavoro, ma impiega i fattori di produzione messi a disposizione dal datore di lavoro committente e soggiace a vincoli di funzionalità rispetto agli scopi e alla struttura del sistema in cui è incardinato. Solo in determinati casi il professionista dipendente può essere sollevato dal vincolo dell’esclusività ed esercitare, a determinate condizioni e fuori dall’orario di lavoro la libera professione.

All’interno della disciplina generale della professione il codice identifica una serie tassativa di  professioni intellettuali (dette regolate o protette) alle quali si riconnette il conferimento di un particolare status che,  conseguibile attraverso il superamento di un apposito esame di stato abilitante e  l’iscrizione in appositi albi o elenchi (art. 2229), è sottoposto ad uno specifico regime di vigilanza pubblica esercitata dallo Stato mediante appositi organismi pubblici associativi di autogoverno (Ordini e Collegi). Le professioni regolare sono attualmente 28.  

Questo modello civilistico della professione intellettuale, detto “chiuso” perché fondato su percorsi didattici prestabiliti e su vincoli all’accesso e all’esercizio, è tutt’ora dominante nel nostro ordinamento, ma comincia a subire il logorio del tempo2. È stato elaborato dall’ordinamento liberista dello Stato unitario ed è penetrato nella nuova Costituzione in forza della generale tutela del lavoro (articolo 4) e del riferimento all’abilitazione (articolo 33, comma 5).  Oggi la concezione chiusa e selettiva del professionismo intellettuale appare angusta e riduttiva rispetto al mutato contesto socio-economico del lavoro e della internalizzazione dell’economia. Il trattato sull’Unione europea, ad esempio, ha abbattuto la barriera tra professione ed impresa equiparandole ai fini della tutela della libera concorrenza. Si è per tale via liberata la strada alla riconsiderazione dei motivi che giustificano la regolamentazione della professioni, ora sempre meno ispirata dalla difesa di prerogative corporative e sempre più orientata alla valorizzazione dei servizi professionali come bene pubblico, alla tutela del consumatore rispetto all’asimmetria informativa tra clienti e prestatori, alla prevenzione delle conseguenze negative dell’esercizio inappropriato dell’attività professionale. Sono stati abbattuti i divieti dell’esercizio della professione in forma associativa.  Anche gli specialisti delle risorse umane e del management usano ormai correntemente il concetto di professione come qualificazione del lavoratore in relazione al possesso di competenza elevata o alla copertura di un ruolo rilevante. Accanto alle professioni protette la legge (legge 4/2013) riconosce ai soggetti esercenti una serie di arti e professioni prevalentemente intellettuali prive di Ordine (per questo detti professionisti “senza albo” o non regolamentati, talune anche sanitarie) la facoltà di costituire associazioni professionali, iscrivendosi volontariamente alle quali accettano di seguire determinate regole tecniche di condotta. Attualmente se ne contano più di 200, tra le quali, ad empio, figurano quella di interprete di conferenza, di amministratore di condominio, di consulente, di perito ed esperto assicurativo.

Le professioni sanitarie di medico, di veterinario e di farmacista altro non sono che un genus particolare della professione intellettuale regolata impersonato da soggetti che, in forza di uno specifico titolo abilitante, svolgono attività di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Il processo di professionalizzazione di cui vogliamo occuparci è quel particolare e quasi secolare percorso politico-legislativo attraverso il quale alcune figure di operatore sanitario, a cominciare dall’infermiere, hanno estratto la propria attività dal posizionamento organizzativo meramente strumentale e servente del medico, ottenendone dalla legge e consolidandone il riconoscimento come un vero e proprio status giuridico professionale complementare di quello del medico. Tale processo, frutto di dinamiche maturate in ambiente ospedaliero, culla storica della medicina e della organizzazione delle cure, da sempre oggetto della regolamentazione pubblica3, è stato guidato e supportato da una serie di interventi legislativi e regolamentari attraverso i quali ha assunto una dimensione sistemica dispiegando progressivamente i suoi effetti su tutti gli altri ambienti organizzati del sistema sanitario.

Note storiche sul processo di professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche

Il processo di cui parliamo si è snodato attraverso un labirinto di atti normativi nel quale ci sembra inopportuno addentrarci, come invece sembra solita fare la pubblicistica ricorrente sulla materia. Riteniamo più utile ricorrere ad un metodo valutativo attraverso il quale, individuato un paradigma normativo originario  delle professioni sanitarie non mediche, cerchiamo di  intercettare  quelle che sono le dinamiche sostanziali del cambiamento, storicizzando il cammino evolutivo della normativa depurato dai riferimenti normativi che avremo cura di riportare in nota per non appesantire la lettura.

Data per nota la storia dell’infermieristica dal medioevo fino alla legislazione del neo-nato Regno d’Italia, possiamo fissare la linea di partenza della nostra indagine valutativa affidandoci al Testo unico delle leggi sanitarie del 1934, le cui norme4 ci consentono di delineare  il modello ordinamentale delle professioni sanitarie attraverso i seguenti principi fondamentali:

a) principio di vigilanza pubblica. L’esercizio delle professioni e delle arti sanitarie è soggetto alla vigilanza amministrativa dello Stato per fini di interesse pubblico. La vigilanza si esplica mediante la definizione del percorso didattico-formativo5, l’esame di stato  per il conseguimento titolo di abilitazione professionale6, l’iscrizione in appositi albi od elenchi nonché  l’assoggettamento dell’esercizio al controllo disciplinare7;

b) principio di specializzazione. Ogni professione sanitaria ausiliaria o arte sanitaria è identificata sulla base della specializzazione conseguita attraverso uno specifico percorso didattico e un tirocinio pratico ed è regolata attraverso la definizione dei compiti propri (mansionario8)  nel contesto organizzativo in cui opera;

c) principio di gerarchia. Le professioni sanitarie sono distribuite lungo una scala funzionale gerarchica al vertice della quale si posizionano le professioni sanitarie principali laureate (medico, veterinario e farmacista), dalle quali dipendono le professioni sanitarie ausiliarie diplomate ( levatrice,   assistente sanitaria visitatrice e  di infermiera professionale), dalle quali dipendono a loro volta le arti ausiliarie  delle professioni sanitarie munite di licenza professionale (odontotecnico, ottico, meccanico ortopedico, infermiera generica).

 

Il tormentato processo di professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche, sul quale esiste una smisurata ed analitica pubblicistica alla quale facciamo senz’altro rinvio, si è sviluppato lungo linee di politica legislativa tra loro interconnesse, le quali   hanno agito principalmente ritoccando due dei richiamati principi fondamentali del modello originario: quello della specializzazione e quello della gerarchizzazione delle professioni. Ne possiamo dare conto sinteticamente scandendoli nelle seguenti fasi storiche:

  • dall’inizio del ‘900 al crollo del regime fascista. Emergono i segnali prodromici della professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche.  L’attività delle professioni sanitarie ausiliarie e delle arti ausiliarie esce dal cono d’ombra dell’assistenza religiosa in cui è rimasto immerso fino alla seconda metà dell’800 ed acquisisce una dimensione professionale sia pure ausiliaria del medico attraverso la regolamentazione del percorso didattico-formativo9, la definizione del mansionario10 e la disciplina degli Ordini e Collegi professionali11;
  • dal 1950 al 1990. Si costruiscono i primi cantieri della professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche.  Si rafforza il percorso didattico-formativo12 e si affina il mansionario   dell’infermiere professionale, ormai nettamente distinto dall’infermiere generico13. Il personale infermieristico e delle altre professioni sanitarie ausiliarie  entra nel SSN e viene inquadrato nel ruolo sanitario del personale  (DPR 761/1979) con il profilo  di operatore professionale di 1^ e 2^ categoria;
  • dal 1990 al 2000. Il decennio di svolta. Con la riforma aziendalistica del SSN (articolo 6, comma 3 del d. lgs 502/1992) la formazione infermieristica viene innesta nel nuovo ordinamento universitario14, l’esame finale del corso di diploma universitario è abilitante, ferma restando l’iscrizione all’albo professionale. Il Ministro della sanità individua il personale da formare ed i relativi profili professionali.  Con Decreti ministeriali tra il 1994 e il 1997 sono individuati   i profili delle professioni  sanitarie dell’area infermieristica15, ostetrica, tecnico-sanitaria, tecnico- assistenziale e della prevenzione16, i quali soppiatano i vecchi mansionari. Il numero delle figure regolamentate sale a 20. La legge 42/1999  cancella  l’aggettivo  “ausiliarie”  e affranca le professioni sanitarie non mediche dalla sudditanza dal medico prevedendone un nuovo profilo professionale autonomo. Nasce la scienza infermieristica come disciplina accademica che studia  la teoria ed i metodi dell’assistenza al paziente. Con Accordo Stato-regioni del 2001 viene definito il profilo dell’operatore socio-sanitario;
  • dal 2000 al 2018. Comincia l’ ”assalto alla  diligenza”. Il processo di professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche si completa e prende slancio. La legge 251/2000 sancisce l’autonomia professionale degli operatori sanitari non medici dell’area infermieristica-ostetrica, riabilitativa, tecnico-sanitaria e della prevenzione. Con DM del 2001 sono ridefinite le figure sanitarie professionali non mediche. Il loro numero sale a 22. La legge 43/2006 detta la definizione  organica delle figure sanitarie non mediche come professioni sanitarie nella prevenzione, nell’assistenza, nella cura e nella legandole all’ordinamento universitario.  Si annuncia la trasformazione dei Collegi in ordini professionali. Aumentano le spinte per la specializzazione post-base e per la connessa gerarchizzazione dei ruoli all’interno delle professioni. Nascono le posizioni di professionista coordinatore e specialista in possesso di master, di professionista dirigente con laurea specialistica regolamentate dalla contrattazione. Nasce il dirigente dei servizi infermieristici. Si prevede l’accesso per concorso ad una nuova qualifica unica di dirigente nel ruolo sanitario del SSN sulla base di requisiti analoghi a quelli per l’accesso alla dirigenza.  Le regioni sono autorizzate ad istituire il servizio di assistenza infermieristica e ostetrica Si apre la strada a percorsi delegificati di riconoscimento di nuove figure professionali in attuazione di direttive europee o su iniziativa dello Stato e delle regioni. Si consente alle regioni di individuare e formare i profili di operatori di interesse sanitario non riconducibili alle professioni sanitarie. Arriva la legge Lorenzin (legge 3/2018), che perfeziona ed amplifica l’azione sul versante del riconoscimento delle professioni sanitarie non mediche e aggiorna la disciplina gli ordini professionali, mantenendo il loro ruolo di enti pubblici non economici che agiscono quali organi sussidiari dello Stato al fine di tutelare gli interessi pubblici connessi all’esercizio professionale. Crescono i “distinguo” e la specializzazione: sono istituiti i profili professionali dell’area socio-sanitaria (operatore socio-sanitario, assistente sociale, sociologo ed educatore professionale) afferenti ai rispettivi ordini. Si consolida la politica espansiva delegificata.  Il CCNL, rinnovato a maggio del 2018, fa la sua parte. Si accanisce da vero regista politico con la consueta abilità bizantina nella classificazione delle professioni, nella istituzione di nuovi profili professionali, nella disciplina degli incarichi di funzione (istituzione, graduazione, conferimento e revoca) e tira finalmente fuori dal cilindro quello che forse è il vero obiettivo sostanziale del processo: acquisire il riconoscimento economico della professione. Il mondo accademico si accanisce nel promuovere nuove specializzazioni a sostegno di nuove abilitazioni differenziate. Nascono le associazioni dei dirigenti delle professioni sanitarie (COSMED) e crescono le rivendicazioni sindacali per il conferimento degli incarichi dirigenziali.

 Valutazione del processo

Le note storiche che abbiamo sintetizzato fugano qualsiasi dubbio sull’avvenuta trasformazione delle figure sanitarie non mediche in professioni, ormai definite formalmente nel loro percorso didattico-formativo, nel perimetro delle attribuzioni proprie, nel loro esercizio anche in regime libero-professionale17, nelle posizioni anche dirigenziali spettanti all’interno delle strutture pubbliche.

Senza trascurare la pressione esercitata dalle categorie a livello internazionale18, il processo della professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche si presta ad essere letto come il prodotto dell’intreccio di due sotto-processi che hanno modificato, interagendo tra loro, l’uno il percorso formativo delle figure e l’altro il loro riconoscimento come professioni. I dati che abbiamo sinteticamente richiamato sono più che sufficienti per riconoscere alla componente medica dell’Università il ruolo trainante e determinante svolto rispetto al processo del riconoscimento giuridico come professione. Il primo ha condotto le figure fuori dall’originario livello formativo fatto pressoché quasi esclusivamente di addestramento pratico in internato ospedaliero, e le ha portate progressivamente verso una piattaforma didattica più evoluta (diploma universitario, laurea magistrale in scienze infermieristiche, specializzazione e master). Il secondo processo, quello del riconoscimento giuridico, ha praticamente inseguito il primo e si è limitato a spalmare  sulla piattaforma delle conoscenze acquisite attraverso la formazione la declaratoria formale delle competenze autonome e responsabilizzanti. Possiamo quindi fondatamente affermare che la vera forza propulsiva del processo di professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche non è stato il pur comprensibile rivendicazionismo di matrice socio-economica. E’ stata piuttosto la crescita della conoscenza tecnico-scientifica, conseguita attraverso la fattiva collaborazione della medicina accademica, a spingere in avanti i vecchi mestieri portandoli nell’area delle professioni intellettuali. Chi avrà avuto la pazienza di scorrere e le nostre sottolineature non può non avere colto tutto ciò. Così come non deve essere sfuggito che il processo è stato sostenuto da una legislazione non particolarmente illuminata, la quale non ha saputo guidare l’innesto dell’autonomia e della responsabilità delle professioni create nell’ambiente organizzativo della sanità pubblica e che ne sta perdendo il governo, ormai avviato lungo sentieri dove regna il dominio delle istituzioni amministrative e del sindacato e dove si formano nuove alleanze e nuovi  conflitti per la rivendicazione di nuove forme di specializzazione e di gerarchizzazione delle posizioni lavorative.

L’andamento del processo evidenzia una dialettica dei poteri che denuncia in ultima analisi la debolezza della politica e dello strumento legislativo nel governare il processo in tutto il suo ciclo di vita. Voglio dire che la politica, una volta intercettato il fenomeno, ne ha promosso lo sviluppo secondo la logica del consenso19 e, approfittando del riordinamento del sistema didattico-formativo, ha   calato su di esso la coltre formale del diritto. Fatto ciò a ha  abbandonando le nuove figure professionali uscite dal cilindro a sé stesse e ha dimenticato di intervenire sull’ambiente organizzativo nel quale  andavano ad incardinarsi in modo da metterle  nella condizione di tradurre   le conoscenze teoriche e tecniche acquisite in nuova competenza, la quale –giova ribadirlo – non è un insieme di saperi né di abilità apprese nella scuola o nella pratica, ma la  autonoma capacità di padroneggiare situazioni complesse combinando  in modo pertinente conoscenze ed abilità in modo da conseguire  un determinato risultato nel contesto dato.

Una svista clamorosa se consideriamo che, mentre si riconoscevano le nuove professioni, l’impianto della sanità italiana era ed è rimasto, nonostante le invocate e declamate dichiarazioni legislative sull’aziendalizzazione del sistema, clamorosamente inchiodato sul modello della vecchia burocrazia statale, il quale divide i compiti in comparti specialistici affidati al  comando di  una sola autorità, non riconosce autonomia ai singoli operatori ed oscura la loro responsabilità per i risultati dell’operato. Come poteva un sistema siffatto non scricchiolare quando introitava l’apporto autonomo e responsabile del professionista? Solo Mosè e i grandi condottieri degli eserciti antichi riuscivano a guidare masse indifferenziate di uomini dividendoli in famiglie su base esclusivamente quantitativa e affidandone il comando ad un solo uomo dotato di autorità generale sulla famiglia stessa. Nelle organizzazioni complesse, quali sono diventati gli eserciti e le grandi imprese contemporanei e come sono indiscutibilmente i servizi pubblici sanitari, entra in campo la specializzazione dei compiti che porta con sé la formazione di segmenti  funzionali  a comando verticale (reparti, uffici, direzioni) tendenzialmente autoreferenziali il  cui coordinamento  richiederebbe invece  linee di comando  orizzontali e flessibili strutturate sui fini dell’organizzazione (dipartimenti, processi, progetti).

In sostanza, quello che è mancato e ancora manca è la visione strategica della professionalizzazione e la percezione della necessità assoluta di governare il cambiamento nell’intero suo ciclo di vita.  Conseguenza, a nostro modo di vedere, della crisi generale del rapporto tra politica e diritto nella complessità degli attuali sistemi socio-economici. Fino a quando il compito dello Stato liberale è stato identificato nel preservare l’ordine sociale da turbative, le leggi potevano svolgere il loro compito limitandosi a dettare le regole e a far discendere da esse conseguenze determinate con relativa certezza. Quando la missione dello Stato diventa sociale e punta a modificare le relazioni tra i soggetti in vista di un determinato scopo, il modello della legge come strumento di regolamentazione giuridica dei rapporti cambia natura. La legge diventa finalistica e programmatica. Indica l’obiettivo, ma perde la capacità di determinarne con certezza l’attuazione attraverso i vincoli che impone ai decisori finali. In questo mutato contesto la politica non può fermarsi alla formulazione delle regole, lasciando all’amministrazione il compito di attuarle. Deve prevederne e valutarne l’impatto sull’esistente prima di adottarle, deve orientarne i percorsi da seguire modificando ove necessario l’assetto dei poteri nelle strutture amministrative e deve monitorarne il processo attuativo intervenendo tempestivamente sulle istituzioni coinvolte per facilitarne l’attuazione adeguando il contesto in cui vanno ad innestarsi. 

Questa diagnosi severa del processo di professionalizzazione delle figure sanitarie denuncia un deficit politico. Ci dice che la politica, continuando ad “inseguire” tatticamente le spinte delle categorie per  conquistarne il consenso, piuttosto che  “guidarne” accortamente l’innesto nel sistema operativo, finisce con il diffondere inconsapevolmente nel sistema il virus dell’iper-specializzazione, il quale  scatena improprie forme di divisione delle competenze e stimola nuove forme di gerarchizzazione burocratica dei ruoli, entrambe nemiche insidiose di quell’integrazione multi-professionale che a parole la stessa politica ci indica come strada maestra di una moderna organizzazione della sanità, sia in ospedale che sul territorio. 

Pertanto chi deve preoccuparsi della corsa disordinata alla professionalizzazione delle figure sanitarie non mediche non è tanto il medico, che vede messo in discussione il suo ruolo, quanto chi ha la responsabilità di organizzare i servizi sanitari e dimostra di non saper mettere a profitto le nuove competenze acquisite dai professionisti integrandole con quelle del medico. La professionalizzazione del sanitario non medico e lo stesso riconoscimento di ruoli dirigenziali nell’ambito della rispettiva area di specializzazione non sono attacchi alla funzione del medico. Sono un arricchimento complessivo della qualità del sistema.  Cambia però l’esperienza del medico che deve evolvere in un contesto organizzativo nel quale deve imparare ad incorporare discipline esogene considerate fino ad oggi serventi, che ne diventano invece  strumenti essenziali e complementari con i quali dialogare tra pari.  Si tratta di momenti di interazione dialettica tra ruoli specialistici che deve trovare la sintesi in processi di servizio estratti dalla logica divisionale e gerarchica che continua invece a regnare nella sanità italiana. 

A me sembra, guardando al fenomeno in una dimensione strategica, che è l’intero sistema organizzativo dei servizi sanitari a dover temere la forza disgregativa della polverizzazione delle professioni e della rincorsa non governata tra di esse. Abbiamo la netta sensazione che la politica abbia inseguito blocchi di interessi contrapposti coltivando la tattica del consenso politico parametrato sui numeri senza avere la chiara percezione della responsabilità strategica che assume nell’innescare quella rincorsa disordinata tra gruppi contrapposti che si scatena all’interno di un reticolo regolamentare che la filiera amministrativa non è in grado di gestire. La politica non ha mancato di accompagnare il percorso della professionalizzazione delle categorie sanitarie non mediche, anzi si può dire che è stata molto solerte nel sostenerlo rispondendo positivamente al rivendicazionismo di categoria e stimolando alleanze opportunistiche con l’università, con le regioni e con il sindacato, ma poi non ha saputo (o voluto) guidare e coordinare le istituzioni amministrative nel loro compito di ricevere e  mettere a frutto la nuova risorsa.

Sotto questo profilo non possiamo che accogliere con soddisfazione l’iniziativa del Ministro Speranza di istituire una Consulta permanente delle professioni sanitarie e socio-sanitarie, la quale, presieduta dal Ministro, avrà il compito di facilitare il dialogo tra le professioni per favorire - si legge nel decreto - l’integrazione e l’interdipendenza dei diversi profili e delle peculiari competenze.

 

  1. Qui assunta come scienza che,  studiando il  diritto quale strumento di giuridificazione delle  scelte con le quali la politica compone i conflitti di interesse presenti nel corpo sociale vede le regole giuridiche perdere progressivamente la loro efficacia prescrittiva ed  assumere sempre più  quel carattere finalistico-programmatico e di orientamento che implica un’attenta valutazione  preventiva del loro impatto sulla realtà sociale e richiede una sistematica azione di monitoraggio della loro processo attuativo. 
  2. Ricordiamo che la disciplina delle professioni è stata rivista non molto tempo fa con il DPR    137/2012, il quale ha previsto  il tirocinio obbligatorio, la formazione continua e l’obbligo di assicurazione.
  3. Basta ricordare che l’ordinamento delle amministrazioni ospedaliere  risale alla legge 1631/1938 dichiarata espressamente applicabile a tutte le strutture di ricovero e cura dipendenti dalle province, dai comuni e da qualsiasi altro ente pubblico. La legge ne indica i servizi obbligatori; li struttura in sezioni (unità minime funzionali di almeno 30 posti letto) aggregate in divisioni (unità fondamentali composte da due o più sezioni dotate di un proprio e completo servizio assistenziale medico e infermieristico e facente capo ad un primario) e in reparti specializzati; li classifica in generali e specializzati. Classifica il personale sanitario e di assistenza distinguendo i medici, i farmacisti, le ostetriche  e il personale ausiliario di assistenza (infermiere diplomato  e infermiere generico abilitato). Detto ordinamento ospedaliero è stato praticamente consolidato con la riforma ospedaliera del 1968 (legge 132), che ha trasformato tutti gli ospedali pubblici in enti autonomi  governati dalla regione sotto la vigilanza del Ministero della sanità e si è esteso a tutte  le analoghe organizzazioni pubbliche (cliniche universitarie, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) e private (istituti religiosi riconosciuti e case di cura private). Il modello è penetrato nel SSN e la classificazione del personale è stata fatta propria grazie al DPR 761/1979 sullo stato giuridico del personale.
  4. Due parole sul Testo unico 1265/1934, considerato, non a torto, dagli storici e dagli studiosi del diritto sanitario  il monumento della sanità pubblica fino all’avvento del SSN, si impongono. E’ qui che troviamo i pilastri politico-normativi della disciplina delle professioni sanitarie. Costruito in epoca fascista sui pilastri con i quali  lo Stato liberale nato con l’unificazione del Regno aveva  fino ad allora  tradotto  legislativamente   le prime  manifestazioni della cosiddetta “medicina di polizia” di matrice asburgica,  disegna la struttura centrale e periferica dello Stato  che vigila sull’esercizio di tutte le attività rilevanti per la salute e detta le regole sull’ igiene degli abitati e delle comunità nonché sull’assistenza sanitaria per i poveri. Il Testo unico recepisce e sistematizza in un corpo normativo organico i principi della legge. 5846/1888) e dei regolamenti del  1901  con i quali Crispi e Giolitti avevano disciplinato le professioni mediche e l’esercizio di qualsiasi attività sanitaria,  strutturando  la filiera amministrativa della sanità.  
  5. Il ciclo didattico formativo richiesto per l’accesso alla professione sanitaria  riflette lo schema generale che troviamo nel pubblico impiego, dove le  quattro categorie (direttiva, di concetto, esecutiva ed ausiliaria) sono associate  rispettivamente il possesso della laurea, del diploma di scuola media superiore, della licenza media e della licenza elementare . E’ grosso modo così articolato:

 

  • per le professioni sanitarie principali si richiede la laurea in medicina e chirurgia, veterinaria e farmacia  (la cui regolamentazione come titolo accademico  utile per l’ammissione all’esame di Stato abilitante all’esercizio della professione risale  al  R.D. 1592/1933 e al R.D. 1269/1938, sostituiti poi con la legge 1378/1956 e dal D.M. 9 settembre 1957) ed il superamento dell’esame di Stato abilitante. Per i medici è stato aggiunto il diploma di perfezionamento e di specializzazione (la cui disciplina  risale  alla legge 78/1942  regolamentata con il R.D. 1609/1942);
  • per le professioni sanitarie ausiliarie  di infermiere professionale, assistente sanitaria visitatrice e vigilatrice d’infanzia si richiede il diploma abilitante all’esercizio della professione   conseguibile al  superamento dell’esame di Stato   al termine di un corso teorico-pratico biennale  con tirocinio (secondo i  programmi disciplinati dal D.M. del 30 settembre 1938) accessibile con la licenza media  inferiore tenuto presso  le scuole-convitto professionali per infermiere (il cui ordinamento risale al 1925 e al regolamento di cui al D.M. 2330/1929)) istituite da università, enti  ed ospedali pubblici autorizzati e tenute in ambiente ospedaliero. Nelle scuole convitto  può essere istituito un terzo anno per l’abilitazione alle funzioni direttive Per le ostetriche  il diploma professionale di ostetrica (che sostituisce il termine di levatrice) rilasciato previo superamento di esame di Stato  dalle scuole di ostetricia autorizzate accessibili con la licenza media inferiore (disciplinate con R.D.L. 2128/1936), rivisto con R.D. 1630/1940);
  • per  le  arti (non professioni) ausiliarie  delle professioni sanitarie di odontotecnico, di ottico, di meccanico ortopedico ed ernista, di infermiere (generico) si richiede la licenza  abilitante  rilasciata dalle apposite  scuole autorizzate  (la cui istituzione risale  alla  legge 1264/1927 e al regolamento di cui al  R.D. 1334/1928)   . Le scuole per  infermiere generico (istituite con la legge 1046/1954) sono  accessibili  ai possessori della licenza elementare ed hanno carattere di tirocinio pratico della  duratata di un anno.    Per i tecnici di radiologia  l’accesso alla scuola è consentito ai possessori  di  licenza media inferiore ed il corso ha durata triennale.   

6. La cui disciplina,  risalente  al  R.D. 1592/1933 e al R.D.1269/1938, è stata rivista con la legge  1378/1956 e con  il regolamento di cui al D.M. 9 settembre 1957.

 

7. La tenuta degli albi o elenchi e la vigilanza pubblica sull’esercizio della professione è affidata agli ordini e ai collegi ricostituiti nel 1946 (D.Lvo.C.P.S 233/1946) e disciplinati come enti pubblici autonomi sussidiari dello Stato con la  legge 561/1956 e relativo regolamento ( D.P. 221/1950). I collegi delle infermiere professionali sono istituiti con la legge 1049/1954. La vigilanza è esercitata sulla base di codici deontologici contenenti norme di  autogoverno  dell’atto professionale a garanzia del cittadino. Riflettono,  ma non rientrano nel sistema della fonti del diritto positivo (soft-law).Per le arti ausiliarie l’elenco è tenuto dal Comune.

8 .E’ da sottolineare che il concetto di mansione appartiene al mondo del lavoro subordinato. Fatta propria anche dal codice civile (articolo 2071), indica i compiti e le operazioni che il lavoratore è tenuto  a svolgere in forza  della posizione  funzionale e gerarchica  rivestita nel contesto della organizzazione dell’ente/azienda. Tradizionalmente articolata sui tre livelli previsti nel pubblico impiego  (esecutivo, di concetto, direttivo), la mansione è associata alla qualifica attribuita e al corrispondente  livello retributivo, entrambi regolati dalla contrattazione collettiva (art. 2071 cod. Civ.). Le mansioni dell’infermiere sono fissate dal R.D. 1310/1940, il quale distingue l’infermiere professionale, al quale spettano mansioni proprie di indole amministrativa, organizzativa, disciplinare e di  assistenza all’infermo nonché  manovre ed interventi su ordine e sotto la vigilanza del medico. Cosa del tutto diversa è il profilo professionale, nozione molto più recente con la quale si indica il perimetro dell’insieme delle conoscenze generali e specialistiche, delle  competenze e delle abilità che il lavoratore deve possedere  per  essere  capace di svolgere un determinato lavoro a prescindere dal vincolo gerarchico. Il passaggio dal mansionario al profilo professionale  è stato uno dei terreni più caldi di dibattito dagli anni ’90 in poi in tutto il mondo del lavoro.

9. E’ da ricordare che il Testo unico del 1934 contiene una nuova regolamentazione delle scuole-convitto, il cui ordinamento risaliva al  R.D.L. 1832/1925) attribuendo al titolo finale la qualificazione di diploma abilitante e posiziona gerarchicamente le professioni sanitarie ausiliare in una posizione intermedia tra le professioni mediche primarie e le arti ausiliarie.

10. Ricordiamo che il mansionario  dell’infermiere  professionale diplomato  è definito per la prima volta  con il (R.D. 1310/1940 mediante la declaratoria di compiti propri di tipo amministrativo-organizzativo-disciplinari  e degli interventi e manovre  eseguibili su ordine e sotto la vigilanza del medico responsabile.

11. Ricordiamo che gli Ordini delle professioni mediche e i Collegi delle professioni sanitarie ausiliarie, soppressi durante il regime fascista, sono  ricostituiti con il D.Lvo.C.P.S 233/1946) e  sono ridisciplianti come enti pubblici autonomi  sussidiari dello Stato con le   leggi  1049/1954 e 561/1956.

12. Ricordiamo che con la legge 1046/1954 le scuole-convitto   infermieristiche sono regolamentate e assoggettate alla filiera amministrativa statale. Sono istituiti  corsi annuali per infermiere generico accessibili con la licenza elementare della durata di 1 anno con rilascio del certificato di abilitazione all’esercizio dell’arte ausiliaria di infermiere generico. Con la legge  124/1971 le  scuole-convitto ospedaliere sono trasformate in scuole per infermiere professionale ospedaliero-universitarie. Gestiscono corsi biennali per infermiere professionale a cui si accede con  il diploma di istruzione secondaria di 1° grado (licenza media) e l’ammissione al 3° anno della scuola secondaria di 2° grado  (10 anni di scolarità).Gli infermieri generici con licenza media in servizio da almeno 3 anni sono ammessi al 2° anno . Con  la legge 795/ 1973 l’Italia recepisce l’accordo di Strasburgo sulla durata triennale  del percorso formativo dell’infermiere.

13. Ricordiamo che con il DPR  225/1974  viene  revisionato il mansionario dell’infermiere  professionale, della vigilatrice d’infanzia, dell’infermiere professionale specializzato (in anestesia, rianimazione, in terapia intensiva) dell’assistente infermiere (operante nel campo della sanità pubblica)  e dell’infermiere generico (coadiutore dell’infermiere professionale)

14. Ricordiamo che il nuovo ordinamento didattico universitario introdotto dalla legge 341/1990 si  articola in:

  1. un corso bi-triennale per il conseguimento del Diploma universitario (DU)
  2. un corso biennale per il conseguimento del diploma di laurea (DL)
  3. un corso biennale successivo alla laurea  per il  conseguimento del diploma di specializzazione (DS);
  4. un   dottorato di ricerca.

15. In tale occasione con DM 739/1994  le mansioni dell’infermiere  professionale di cui al DPR  225/1974 vengono fatte confluire nel profilo professionale dell’infermiere, definito come operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, è responsabile dell’assistenza generale infermieristica. Con lo stesso regolamento viene prevista la specializzazione dell’infermiere professionale in sanità pubblica, pediatria, psichiatria, geriatria e a area critica conseguibile attraverso una  formazione infermieristica post-base definita dal Ministero della sanità che diventa titolo preferenziale per l’esercizio di funzioni specifiche nelle diverse aree.i

16. Ricordo, per citare solo i principali, che,  accanto al profilo  dell’infermiere  viene regolamentato tra gli altri  quello  dell’ostetrica (DM 740/1994) , dell’infermiere pediatrico (DM 70/1997), del fisioterapista (DM 741/1994), del tecnico  di laboratorio biomedico (DM 745/1994), del tecnico di radiologia medica (DM (Dm 746/1994). Con Decreti del 1999 (numeri 266 e 142) viene rivisto  il mansionario delle arti ausiliarie risalente al 1922.

17. Di cui si è accorto anche un recentissimo decreto del MEF (22 novembre 2019) che include  questi  soggetti  tra quelli tenuti alla trasmissione delle spese al sistema tessera sanitaria ai fini dell’elaborazione della dichiarazione dei redditi elettronica.

18. Ricordo che il 2020 è stato dichiarato dall’OMS “anno internazionale dell’infermiere e dell’ostertica” all’insegna della carenza di personale infermieristico stimata entro il 2030 nell’ordine di 9 milioni di opertori a livello mondiale

19. Tanto per dare un parametro quantitativo delle ricerca del consenso, ricordo che, considerando  solo  il personale dipendente e convenzionato del SSN stimato dal sistema informativo del SSN in 724.245 unità,  a fronte di  237.388 medici, il personale  infermieristico ammonta  a 334.918 unità, il personale riabilitativo a 48.884 unità, il personale tecnico sanitario di laboratorio e radiologia a 45.364 unità, il personale con funzioni di ispezione e vigilanza  a 11.105 unità.